Minorenni, scappano dalla famiglia in Eritrea con un sogno nel cuore.
Scappano da soli, senza salutare la mamma, i fratelli, i parenti: avvertono la famiglia con una telefonata solo una volta arrivati in Sudan. Alcuni, di appena 10 anni, cambiano idea, piangono. Ma è troppo tardi, a quel punto tornare indietro non sarà più possibile: i familiari si troveranno di fatto costretti a spedire ai figli il denaro per continuare il viaggio.
Questi ragazzi a quel punto hanno solo due idee ben chiare in mente: in Eritrea non torneranno mai più, è la prima.
Non subiranno più a scuola la punizione delle dita schiacciate fra le penne, non diventeranno soldati già dai 18 anni (e non resteranno al fronte fino ai 40-50 anni come la legge eritrea prevede).
Almeno la metà degli 80 minorenni che sono ospitati nel centro di prima accoglienza del rione Archi di Reggio Calabria proviene dall’Eritrea; in questa ex scuola (di un quartiere di ‘Ndrangheta) i ragazzi avrebbero dovuto oziare solo per i primi 3 giorni dopo lo sbarco; in realtà alcuni di loro abitano qui ancora dopo oltre 3 mesi. Come tutti, erano arrivati in città raccolti in mare da qualche nave europea, e si erano sentiti quasi arrivati alla loro metà finale. E oggi scappano ancora.
La seconda idea ben chiara che hanno in mente è: in Italia non si resta. Vogliono raggiungere la Svizzera, la Svezia, l’Inghilterra. Chiedono dov’è Roma, dov’è Milano.
Giovanni Fortugno (animatore generale per l’immigrazione di Apg23 e conosciuto in città come coordinatore del Coordinamento diocesano per l’emergenza sbarchi) denuncia che per molti di loro non si saprà più nulla; c’è stato il caso di un eritreo, accusato del traffico di minori verso il Nord, che è stato arrestato nei giorni scorsi. «Di metà dei minorenni che sbarcano si perdono le tracce; alcuni di loro rischiano di essere assoldati - denuncia Fortugno - da gruppi malavitosi».
Apg23 gestisce in città, in collaborazione con moltissime realtà del territorio e della chiesa locale, una casa di accoglienza per minori soli non accompagnati. Subito dopo lo sbarco di lunedì scorso (oltre 1000 persone si erano riversate sulla banchina del porto sotto una pioggia battente) ci abitavano, fra gli altri, 4 ragazzini eritrei. Quattro giorni dopo due bimbe erano già scappate: G. e S., 17 anni dichiarati anche se ne dimostravano di meno. Con gli altri accolti della casa avevano giocato a dama, avevano ascoltato la musica; erano arrivate con lo sbarco del 4 settembre.
A. ed E., di 13 e 14 anni per ora hanno deciso di restare: mercoledì è stato infatti per loro il primo giorno di scuola in una terza media italiana: è un mezzo sogno che si realizza. A., però, ripete spesso: «Io me ne andrò al Nord, in Italia non ci voglio rimanere». L’equipe cerca di evitargli i contatti con gli altri ragazzi del centro di prima accoglienza, per rendergli più difficile organizzare la fuga.
Il viaggio dall’Eritrea è durato un anno e mezzo per E., e 9 mesi per A; hanno subito qualche maltrattamento in Libia ma non mostrano traumi evidenti. Alla domanda: «Ma ti mancano i tuoi genitori?», E. risponde: «E anche se mi mancano cosa ci posso fare? Nulla».
«Quando sei nato?» «Durante la terza offensiva».
Bruna, che coordina la casa, si è preparata all’idea del distacco se dovessero scappare: «Sono bimbi che accogli come fossero tuoi figli; ma devo rendermi conto che hanno già abbandonato le loro madri. Come posso pretendere che decidano di rimanere con me? Prego per loro, li affido a Maria».
Un ragazzo e una ragazza che per ora non hanno intenzione di fuggir via dalla casa di accoglienza di Reggio Calabria sono A. e G, entrambi di 17 anni, arrivati dalla Nigeria: lei era stata rapita incinta in Libia e lui aveva lavorato per pagarle il riscatto. Bruna e Marco (un giovane volontario di Vicenza) li hanno accompagnati in ospedale per la nascita del loro bambino.
Ora hanno trovato qui la loro famiglia italiana.
Oggi a Reggio Calabria è previsto lo sbarco di altre 487 persone da una nave battente bandiera norvegese. Almeno 34 sono i minori a bordo.
(Marco Tassinari)