Ripubblichiamo dal quotidiano Avvenire, oggi in edicola.
L’ostinazione dell’Alta Corte Inglese di fronte agli incalzanti ricorsi della famiglia Gregory lascia interdetti. Irragionevole e incomprensibile posizione giuridica, ma soprattutto insopportabile lezione di disumanità. Un’inspiegabile accanimento giudiziario contro la piccolissima Indi. L’irremovibile posizione inglese genera sospetto, favorendo una dietrologia popolare senza risposte: cosa ci sarà dietro la posizione dell’Alta Corte inglese? Il timore di creare un precedente? L’imbarazzo di giustificare una spesa sanitaria ritenuta inutile per una vita così precaria? Possibile che la legge Britannica sia così impietosa di fronte ad una creatura che ha intenerito l’Italia intera? Non si sa. La dietrologia non porta risposte, ma lascia dubbi e inquietudini. Certamente bisogna avere il coraggio della verità: si tratta di una scelta eutanasica.
L’eutanasia sdogana derive imprevedibili.
La Corte Inglese ha definito incurabile la piccola Indi. Ma la bioetica e ancor prima il comune senso di umanità insegna che seppure ci possano essere persone inguaribili, ogni creatura, invece, è sempre curabile. Si corre il rischio di anteporre la patologia alla persona, di far precedere la delezione cromosomica al bimbo, di confondere Indi con la sua malattia mitocondriale. Ogni persona è sempre una persona, e mai la sua malattia. È per questo che Indi merita le cure possibili, perché Indi non è solo patologia neurodegenerativa, ma prima di tutto è una bellissima creatura. E come tutti i bimbi desidera cure amorevoli, canzoncine sussurrate nell’orecchio e coccole a dismisura. La relazione affettiva è parte della cura, seppure non avrà l’esito della guarigione.
Scandalizza una certa medicina che tradisce la sua natura più autentica. La disumana sentenza inglese avvalora l’idea che la medicina inglese possa spegnere le vite umane allorquando siano inguaribili. È disumano impedire le cure possibili. Si chiede così alla scienza medica di tradire la sua identità e di uccidere piuttosto che salvare, spegnere vite umane piuttosto che tenerle in vita. Un’insopportabile ingerenza della legge nei fondamenti della medicina Britannica, e non solo. La posizione eutanasica dell’Alta Corte, infatti, ambisce a fare da apripista ad un possibile dilagare di simili scelte ideologiche e cliniche anche in altri Paesi.
E se la morale, la bioetica, e prima ancora il comune senso di umanità, suppongono la relazione con la persona per interpellare i suoi bisogni, decifrare i suoi desideri e decodificare le sue sofferenze, la legge inglese non lasci cadere, come macigni, sentenze nefaste senza essersi seduta a fianco della culla di Indi Gregory. Come pretendere di conoscere il miglior interesse di Indi solo dalla sua cartella clinica? Tutto lascia presumere che la piccola Indi sia stata considerata come un caso clinico piuttosto che come persona. È disdicevole il pietismo di sopprimere la vita per evitare le sofferenze, piuttosto che mettere a servizio la scienza medica per curare la persona alleviandone i dolori.
La vita umana non è un merito, ma un dono. Non si ha accesso alla vita solo se la cartella clinica lo consente. La vita si accoglie sempre, pur nella sua imperfezione. Ci repelle l’idea della selezione eugenetica, si rabbrividisce al ricordo degli orrori della nostra storia.
Sopprimere una vita umana è contro la natura stessa dell’uomo. Ancor più quando si tratti di una piccola creatura, per definizione innocente, amabile per antonomasia.
Indi resta amabile, seppure malata, forse inguaribile, ma mai incurabile.