Dopo la vicenda della mamma richiusa nel carcere di Rebibbia di Roma, che il 17 settembre ha ucciso la figlia neonata e il figlio di due anni lanciandoli per le scale, abbiamo intervistato Giuseppe Longo. È il responsabile del progetto “Nessun bambino deve nascere e vivere in carcere” della Comunità Papa Giovanni XXIII.
Giuseppe, qual'è la situazione a Rebibbia?
È una delle strutture meglio organizzate d’Italia, in cui anche il volontariato ha un ruolo da protagonista.
Conosco i vertici e devo dire che hanno avuto sempre una marcia in più, un’attenzione importante nei confronti dei bambini accolti dietro alle sbarre. Durante le mie visite ho avuto una buonissima impressione.
Ma il problema in Italia è strutturale, come racconta ad esempio questo articolo di Avvenire:
In Cella col biberon. A Rebibbia è evidente si sia trattato della situazione di una mamma esasperata, di cui nessuno si è accorto in tempo.
Qual’è la tua esperienza nelle carceri italiane?
Ho lavorato molto a Rebibbia, dove c'è il più grande carcere femminile italiano, con il maggior numero di bambini; adesso fornisco supporto psicologico ai detenuti nel carcere di Vicenza e collaboro con gli istituti penitenziari di Venezia e di Verona.
Hai mai avuto la percezione di casi a rischio per le mamme o per i bambini?
I detenuti che vengono a parlare con i volontari sono quelli che presentano una “domandina”, che va approvata dal direttore del carcere. Quindi di solito chi chiede aiuto è una persona che ha già un minimo di risorse proprie; i casi più problematici sono invece quelli di chi non chiede nulla, di si chiude in cella da solo fino alla disperazione. Questi detenuti entrano in contatto solo con gli agenti penitenziari, che non hanno compiti educativi o di prevenzione; noi non riusciamo mai ad incontrarli.
C’è un ragazzo, maggiorenne, che ha già compiuto diversi tentativi di suicidio; lui non vuole avere colloqui con i volontari ma glieli hanno imposti; è un tentativo del tutto inutile, nonostante gli sforzi non riesco a fare nulla per aiutarlo.
Di che strumenti di prevenzione si dotano gli istituti penitenziari?
Gli psicologi che lavorano nelle carceri sono quasi tutti assunti con contratti a termine, spesso part-time. Lavorano a rotazione. Il motivo è che la sanità penitenziaria è a carico di quella pubblica, ma non gode di nessuna attenzione. Se mia moglie non ha il pap-test in regola e non riesce ad avere un appuntamento prima di sei mesi, io da marito mi attivo per trovare una soluzione. Chi si preoccupa del pap-test delle detenute che sono in carcere? Nessuno.
Le mamme con bambini in cella godono di maggiori diritti, ma dal punto di vista della genitorialità non ricevono un sostegno adeguato. Si trovano fianco a fianco mamme nigeriane, con mamme rom, con mamme rumene o italiane o moldave: ognuna ha una modalità educativa diversa; ci vorrebbe un’equipe di psicologi per aiutarle a crescere come madri. Di psicoterapia non ho mai sentito parlare. Gli strumenti non sono adeguati, nessuno si preoccupa di cosa succede in cella dal punto di vista pedagogico per i bimbi.
Dietro alle sbarre una mamma è considerata brava quando dà molto da mangiare al bimbo, oppure se lo tiene molto abbracciato o se lo tiene a letto con sé. In queste condizioni è impossibile parlare di maternità responsabile, e di valutare le capacità genitoriali delle mamme. Una mamma che ho conosciuto dava alla bimba di 2 anni 4-5 uova a settimana, contro ad ogni indicazione dei pediatri; poi ci sono mamme che tengono il bambino con sé solo per avere le agevolazioni previste. Il carcere è piuttosto una scuola di sopravvivenza, di omertà, sia per mamme che bambini.
Per la prevenzione e la rieducazione sarebbero indispensabili i progetti esterni, ma hanno un costo enorme per le istituzioni: a Rebibbia ci sono dei progetti per far lavorare i detenuti nella cura dei parchi pubblici, ma questo richiede una presenza di forze dell’ordine non sostenibile economicamente. Un corso di pet-therapy che ho seguino negli ultimi anni, in cui si rieducavano le mamme attraverso la cura degli animali, è stato tagliato proprio per questo motivo.
Quali esperienze ci sono di mamme con bambino che scontano la pena fuori dal carcere?
Noi abbiamo ad esempio in carico S., incinta con due bimbi di etnia rom, ospitata in una casa famiglia. Anche il papà è accolto da noi in una
Cec, in alternativa al carcere.
Negli ultimi anni come Comunità Papa Giovanni XXIII abbiamo accolto una decina di mamme, tutte quelle per cui ci è arrivata richiesta.
Non tutte possono accedere alle pene alternative: non in caso di pericolosità sociale o di rischi di fuga; alcune donne rifiutano poi queste possibilità per non essere trasferite e non rinunciare alle visite dei familiari. Da noi non abbiamo mai avuto tentativi di fuga, anche se in altri enti è capitato.
I bambini che arrivano in casa-famiglia rielaborano l'esperienza del carcere?
In prigione nell’ora d’aria vedi questi bambini che camminano come zombi fra i corridoi; vedi mamme nigeriane che vietano ai loro bimbi di giocare con quelli italiani o con quelli rom, i figli delle detenute vanno ogni giorno a scuola di divisione e di violenza. Il bambino non ha gli strumenti per rielaborare il vissuto in carcere. Si domanderà per sempre: «Cosa ho fatto di male»?
Dietro alle sbarre subiscono continui lutti; ho visto bimbi strappati dalle braccia del papà o dalla nonna durante i colloqui perché era finito il tempo di visita, oppure piangere al termine di una telefonata con i fratelli troncata dalla voce metallica dell’inserviente. Il bimbo non può capire cosa succede, sono continui traumi, danni emotivi.
I bimbi in carcere assistono a liti fra donne, subiscono liti fra coetanei, vedono intervenire gli adulti in maniera violenta. Se un bimbo viene ricoverato in ospedale spesso la mamma non li può seguire, se la mamma va a processo il bimbo resta solo in carcere fra gli estranei.
Secondo alcune ricerche scientifiche i rumori secchi della battitura quotidiana delle sbarre provocano in loro danni celebrali irreparabili. Sono bimbi che non ti guardano negli occhi, bimbi che non vogliono salire sui nostri pulmini perché nel loro immaginario sono i mezzi dei cattivi che portano via le mamme.
In casa-famiglia un bimbo di 3 anni mi ha detto «O mi dai la mia caramella o chiamo l’avvocato», un altro che non riusciva ad aprire la porta del bagno ha cominciato a battere urlando: «Agente! Agente!», aspettando il poliziotto che arrivasse con le chiavi. Ma era in una casa normale.
Il carcere è rieducativo per queste mamme?
Il carcere ferma una fase acuta, ma quando è prolungato diventa una fabbrica di violenza. Se non sei violento, non sopravvivi psicologicamente dietro alle sbarre, ecco perché le persone fragili possono cedere come è successo a Roma.
Quando le mamme arrivano da noi grazie alle pene alternative alla detenzione, noi ci troviamo con un distacco diffice da gestire: sono donne che vanno in astinenza dal figlio, che non hanno un equilibrio. Il carcere non è mai rieducativo. «Io sono entrato in galera povero Cristo e sono uscito gran delinquente», mi ha raccontato un detenuto. Il 70% di chi sconta la pena nelle carceri italiani ritorna in carcere; il 35% di questi ricade in errore per aver commesso reati imparati in carcere. Le celle sono scuole di malavita, in cui le persone si accordano sui crimini che commetteranno poi.
Dal punto di vista delle mamme, loro hanno un valore aggiunto rispetto agli altri rei: il loro bambino. Per loro diventa un principe, un gioiello che nessuno può toccare. Il bambino in carcere è tutta la loro vita, fanno a meno di mangiare per lasciare il cibo migliore al bimbo; eppure quando parli con gli ergastolani ti dicono: «Non lasciateli dentro, diventano come noi».
Marco Tassinari