E’ nato nel carcere femminile della Giudecca a Venezia, sordo, 5 anni fa. A maggio compirà 6 anni, e finalmente per lui potranno aprirsi le porte della cella, ed andrà in affido extradomiciliare. La sua colpa? Essere nato figlio di una madre che ha sbagliato, che ha rubato. La mamma ha ancora 18 mesi di galera da scontare.
«Quello è un ottimo carcere, gestito bene, l’unico carcere attenuato per donne del Veneto. Però è sempre un carcere. E noi da 3 anni abbiamo dato disponibilità, rinnovandola ogni 6 mesi, per accogliere quel bimbo e la sua mamma: ben due famiglie della Comunità avevano detto il loro sì. Come farà adesso a reinserirsi nel mondo dopo tutto questo tempo, dopo che a lui è stata rubata l’infanzia?», si chiede Giuseppe Longo, responsabile per la Comunità Papa Giovanni XXIII degli interventi in favore delle mamme e bambini in carcere.
Qualche giorno fa sono stati concessi gli arresti domiciliari ad una madre detenuta a Bologna con due neonati; eppure la legge mantiene nelle carceri italiani 41 mamme con 44 bambini e 10 donne incinte. Per ognuna di loro sarebbe possibile trovare soluzioni sicure, alternative: dal 2002 la Comunità Papa Giovanni XXIII ha messo a disposizione del Ministero della Giustizia tutte le sue case famiglia in Italia, per individuare le soluzioni migliori.
Eppure manca ancora un decreto attuativo che definisca i parametri necessari al riconoscimento delle case famiglia protette, in cui le madri con bambino possano scontare la pena.
«Le case famiglia protette costerebbero molto meno delle carceri attenuate (Icam). E in molte regioni d’Italia gli Icam mancano proprio; i giudici preferiscono tenere mamme e bambini nelle carceri tradizionali, allestendo dei nidi-in-carcere piuttosto di spostare i nuclei familiari altrove», conclude Longo.
#oltrelesbarre