«Possiamo arrivare ad ospitare in pena alternativa al carcere fino a 1000 detenuti in 3 anni, nelle case di accoglienza della Comunità Papa Giovanni XXIII. Altri 10mila detenuti possono essere accolti coinvolgendo la rete di associazioni che sono pronte per l’accoglienza qualora ci fosse una retta di almeno 35-40 euro al giorno per ogni detenuto».
Una delegazione della Comunità Papa Giovanni XXIII il 20 febbraio 2019 ha portato la proposta al Capo del DAP (Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria), Francesco Basentini.
«Un detenuto nell'attuale sistema carcerario costa al portafoglio degli italiani 150 euro al giorno», ha spiegato Giorgio Pieri, responsabile del progetto delle CEC, Comunità Educanti per i Carcerati dell'associazione di Don Benzi, che ha aggiunto: «Quasi 8 persone su 10 uscite dalle carceri tradizionali tornano a commettere reati, il 75%. Per chi esce dalle CEC la recidiva si abbassa invece al 15%: meno di 2 persone su 10 torneranno a delinquere. Le alternative al carcere possono rendere più sicuro il nostro paese».
Intervistato all'uscita dall'incontro con il massimo dirigente dell'amministrazione penitenziaria, Pieri si è mostrato soddisfatto:
«L’interesse dimostrato per la nostra proposta è stato alto. La questione economica non è di facile soluzione, ma in giornata abbiamo avuto anche l'opportunità di incontrare il direttore della Cassa Ammende, Gherardo Colombo, accompagnato da Sonia Specchi. Il cambiamento richiede percorsi che possono essere lunghi e difficoltosi, ma sono necessari: crediamo davvero che sia possibile passare dalla certezza della pena alla certezza del recupero, siamo convinti che sia questa la vera via alla sicurezza».
La prima casa di accoglienza per detenuti in pena alternativa della Comunità Papa Giovanni XXIII è stata aperta nel 2004, sul modello delle APAC (Associazioni di Protezione e Assistenza dei Condannati) ideate in Brasile dal compianto Mario Ottoboni. Oggi le CEC (Comunità educative per i carcerati) sono 7 in Italia e 2 in Camerun, affiliato ufficialmente alle APAC brasiliane dal 2016.
Attraverso i percorsi previsti in queste case di accoglienza i detenuti sono impegnati in lavori socialmente utili, ma soprattutto in un lavoro psicologico di rivisitazione del proprio passato, per trovare la forza di perdonare sé stessi e di chiedere finalmente un reale perdono alle vittime dei reati commessi. L'accoglienza è pensata in tre fasi successive che possono avere durata variabile: il primo ingresso, il percorso di recupero, il reinserimento in società.
L'esempio. La casa Santi Pietro e Paolo di Vasto, in provincia di Chieti, è stata inagurata il 15 settembre 2017 a Vasto. Si tratta della 6ª casa del progetto CEC in ordine di età (Comunità Educante per Carcerati, ecco come funziona), aperta in Italia dalla Comunità Papa Giovanni XXIII.
«Questa nuova apertura dimostra che l’esecuzione penale al di fuori del carcere non solo è possibile, ma è anche un modo di rendere la pena utile per la sicurezza della società, per la crescita del reo, e rendere giustizia alle vittime. L’intera società è chiamata a farsi carico di chi nella debolezza ha confidato nel male come via per ottenere la felicità. La festa di inaugurazione è anche un momento di riflessione e confronto su alcune proposte concrete per il superamento del carcere» ha detto per l'occasione Giorgio Pieri, coordinatore del progetto CEC.
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Sul tema delle misure alternative alla detenzione si era messo al lavoro, prima di precipitare nel baratro, il governo Gentiloni: le scuderie romane ad inizio 2018 stavano forgiando in gran silenzio il principale decreto attuativo, previsto dalla riforma 2017, per regolamentare le varie istituzioni di pena alternative al carcere. Ed il 16 marzo è uscito, un po' in sordina, un gemito roco di festeggiamento. Le agenzie con gran foga hanno battuto: "riforma del carcere approvata dal governo", anche se si era trattato sostanzialmente di una gran bugia. Una piccola modifica qua, un ritocco là: ed ecco che la rivoluzione copernicana delle carceri Italiane, che tutta Europa stava aspettando, fu condannata a ritornare alla Camera dei Deputati, poco tempo prima della fine annunciata della legislatura.
La Comunità Papa Giovanni XXIII ha celebrato il lutto con momenti di silenzio e di riflessione di fronte ad alcuni dei più importanti istituti penitenziari in tutta Italia.
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Il Presidente di Apg23 Giovanni Paolo Ramonda, così ha preso atto del naufragio della riforma dell'ordinamento carcerario: «Nel 2018 siamo arrivati ad un passo dall'approvazione di quella che era la più importante riforma dell'ordinamento penitenziario degli ultimi 40 anni. Quello stop è arrivato dopo un lavoro che ha coinvolto centinaia di esperti; è stato una grave ingiustizia. Attraverso il recupero del reo nelle strutture per le pene alternative la recidiva può arrivare addirittura al 10%».
Anche il comico di Zelig, Paolo Cevoli, aveva preso posizione (inutilmente) per difendere l'agoniato tentativo di riforma del sistema carcerario.
«Ci troviamo davanti al carcere per difendere l'approvazione della riforma carceraria, In alcuni carceri è in atto lo sciopero della fame. Chiedo che chi può, si unisca a noi»
Durante il seminario "L'uomo non è il suo errore"di fine 2017 Monsignor Bruno Forte, arcivescovo della diocesi Chieti-Vasto, ha condiviso una sua esperienza personale: nei primissimi mesi di sacerdozio era stato con i carcerati in Ruanda, dopo il genocidio. In quell’occasione era stato molto colpito dalle condizioni terrificanti in cui venivano i detenuti, molti dei quali erano innocenti: «la dignità umana era stata cancellata, calpestata», ha raccontato. Per questo motivo mons. Forte si è dichiarato particolarmente sensibile al tema del recupero dei condannati. Citando Papa Benedetto XVI (da uno dei suoi interventi sulla pastorale carceraria) ha ribadito che «In un carcere non sicuro la dignità della persona è a rischio». Ha ripreso poi le parole di Papa Francesco: «Ogni pena deve comunque sempre promuovere la dignità dell'uomo, la pena non può essere una vendetta». Mons. Forte ha auspitato che tutte le comunità parrocchiali aiutino i detenuti e i loro familiari, costituendo anche gruppi di volontari che si rendano presenti nelle carceri del territorio. «C’è poi l'urgenza di operare per il reinserimento dei detenuti», ha concluso.
Federica Chiavaroli, allora senatrice e sottosegretario di Stato alla Giustizia, nell'occasione ha sottolineato la necessità a suo parere di modificare il nome “carcere”: «La dicitura esatta — ha detto — dovrebbe essere “misure di comunità” perché si svolgono in comunità, per la comunità, con la comunità. Non si dovrebbe parlare di “alternativa” al carcere, come se quest’ultimo fosse l'intervento da privilegiare, ma il carcere dovrebbe rimanere l'extrema ratio. Recuperando i detenuti, la comunità crea autentica sicurezza sociale; è fondamentale far conoscere il carcere e le misure di comunità, il modello della giustizia minorile deve essere sviluppato, inoltre anche nell'ambito della giustizia per i maggiorenni c’è un cammino da fare insieme per il futuro». Ha citato poi un'esperienza personale vissuta con i detenuti del carcere di Pescara che, dietro sua iniziativa, hanno svolto lavoro socialmente utile pulendo il sentiero per Rigopiano, ove vi fu il terribile incidente all'albergo: «È stata un'esperienza molto bella che ha colpito prima di tutto gli abitanti del territorio».