In tutto il mondo il 20 Novembre si celebra la giornata internazionale dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, in memoria della ratifica della convenzione a tal riguardo, del 1989 da parte delle Nazioni Unite. Questa in Italia è stata ratificata nel 1991. Anche qui da noi, in realtà, bambini e ragazzi non sono tutti uguali; alcuni sono rinchiusi in carcere e i loro occhi chiedono: «Com’è la vita fuori?».
I dati del Ministero della Giustizia riportano che i minori condannati, nel Giugno del 2016, erano 426 e sono tutt’oggi ospitati in quelli che vengono definiti “Istituti penali per minori”. In queste strutture sono detenuti ragazzi e ragazze, dai 14 ai 25 anni, che hanno commesso reati, penali o civili, prima del compimento del 18° anno d’età. Il tribunale per i minori fu istituito nel 1934, in piena epoca fascista, e oggigiorno si è cercato di sostituire la vecchia impostazione punitiva con un modello assistenziale-terapeutico. Nonostante l’ultima modifica del Codice di Procedura Penale per minori, risalente al 1989, abbia tentato di diminuire il numero di ingressi, questo è ancora elevato.
I dati ci dicono che i reati commessi dai minori sono prevalentemente reati contro il patrimonio, seguiti da reati contro la persona, spaccio e rapina. Mediamente la pena è di circa un anno ma varia al mutare del reato.
Ma quali sono i volti che si nascondo dietro a questi numeri e dietro a queste colpe?
Secondo Annamaria Mason, volontaria in carcere della Comunità Papa Giovanni XXIII, l’unica differenza coi ragazzi che sono fuori non è tanto l’assenza di un sogno, bensì la possibilità di crearsene uno. L'associazione presta in diverse città italiane servizio presso le carceri minorili.
La scorsa domenica un gruppo di volontari in collaborazione con l’associazione “La prima pietra”, hanno visitato i ragazzi del carcere minorile di Treviso e condividendo con loro la merenda e alcuni giochi. A Treviso i ragazzi reclusi sono 15 e la maggior parte non è italiana. Gli stranieri, nel nord Italia, sono la maggioranza e, come ci racconta Annamaria, non ricevono un trattamento uguale agli altri. Spesso non hanno la famiglia con loro e non si possono permettere l’assistenza di un buon avvocato.
Secondo le statistiche, nel Nord la maggioranza dei reclusi è straniera mentre nel Sud la prevalenza è composta da ragazzi italiani coinvolti in meccanismi malavitosi.
Quando si entra in carcere si deve avere un permesso speciale, si deve essere identificati e si devono riporre tutti i propri oggetti in un’apposita cassetta e, dopo aver varcato svariati cancelli, si possono incontrare i ragazzi. Inizialmente si è guardati con sospetto. Raccontano i volontari: «Appena si inizia a parlare e a scherzare con loro non si percepisce alcuna distinzione; ci si sente uguali. La differenza però, dopo i giochi e gli scherzi, ritorna: appena la polizia penitenziaria li obbliga ad andarcene».
La sveglia, in carcere, suona alle 8.00 per la colazione, poi vi sono delle attività a cui segue il pranzo, in seguito due ore di cella, di nuovo attività, due ore di cella, cena e poi… cella, tutta la notte.
Quando non sono in cella e non svolgono attività, i ragazzi hanno sei ore d’aria che possono trascorrere in un piccolo cortile o in una grigia palestra. Per fare qualsiasi cosa si deve chiedere il permesso, senza escludere la possibilità di essere perquisiti. Si ha un numero limitato di ore per i colloqui e per le telefonate. Nella quotidianità i ragazzi svolgono dei piccoli lavori che gli permettono di guadagnare pochi euro con cui si devono poi comprare tutto ciò che gli serve: sapone, dentifricio, acqua e sigarette. All’interno del carcere lavorano educatori, psicologi, mediatori culturali e professori che cercano di insegnargli una professione o fargli recuperare gli anni di scuola persi.
«Tutti coloro che stanno con questi ragazzi tentano di tenerli impegnati e fanno un buon lavoro ma il problema — spiega Annamaria — è che dentro si deve rispettare un determinato codice e che devono confrontarsi quotidianamente con la propria colpa».
Quando un ragazzo entra deve spogliarsi di tutto, compresi i propri oggetti personali e costruirsi una nuova identità: quella del carcere. Quando esce, poi, sarà costretto di nuovo a costruirsene una nuova o a rindossare quella vecchia e, prima o poi, ricadere e, forse, rientrare dietro alle sbarre.
In tutto ciò, che cosa fanno i volontari? «Cerchiamo di condividere coi ragazzi un po’ di questa anormale normalità; tentiamo di portare dentro un pezzo di cielo che loro non possono vedere dal piccolo cortile. Si vuol far capisce che la vita è più bella di come sono stati abituati e che rapporti, basati sulla gratuità, sono possibili», racconta Annamaria.