Con sguardo affrettato Haiti dà l’impressione di un Paese senza speranza, sfruttato e colpito da un numero esagerato di tragedie. A volte anche noi missionari, presi dalla stanchezza e da qualche “giornata no”, ci facciamo coinvolgere da questa immagine rassegnata.
Sette anni fa, il 12 gennaio 2010, un tremendo terremoto ha devastato l'isola caraibica e seminato morte. Il passaggio dell’uragano Matthew lo scorso ottobre, ha aggiunto distruzione, malattie e miseria nelle regioni del sud e del nord, con il conseguente numero di morti.
«Un albero caduto sulla mia casa ha fratturato il bacino di mio papà – ci racconta Saintenes, nostra amica di quartiere originaria della provincia di Jeremie –. Due miei nipoti di 17 e 19 anni sono morti il mese scorso perché dopo il ciclone hanno preso il colera. Tanti di noi non hanno mezzi per ricostruirsi la casa e vivono ancora nelle scuole, ad oggi ferme. Non c’è cibo, mia mamma dice che mangiano le mandorle delle piante che si sono salvate. Io ho provato a mandare dei sacchi di riso tramite degli amici scesi al sud con un tap tap (sgangherati mezzi di trasporto pubblico) ma al loro arrivo sono stati assaltati. Hanno fatto un grosso taglio sul volto dell’autista e hanno rubato tutto puntando armi verso i miei amici». Poi continua dicendo che la maggioranza degli aiuti si sono fermati alle città. Nel loro paesino hanno solo ricevuto una visita dalla Croce Rossa haitiana. I contadini che prima venivano in capitale per vendere – ci spiega – ora sono qui per cercare di comprare cibo e materiale per ricostruire ma i prezzi sono alle stelle e loro sono ridotti all’osso, con grandi laghi al posto dei campi e con i tetti delle case divelti. Nel racconto di Saintenes si aggiunge qualcosa di mistico quando dice che i politici avrebbero avuto il potere di deviare il ciclone ma non l’hanno fatto. I 30 anni di dittatura Duvalier, basata sull’utilizzo di credenze voudù, hanno lasciato forti conseguenze nella mentalità locale.
Anche Saintenes, come tantissimi haitiani, ripone tutto nella preghiera e nelle mani di Papa Bondye (il buon Dio), rafforzata dall’esempio della zia, cristiana e povera, che «con la preghiera ha evitato che una grossa pianta di mango cadesse sulla sua casa e che questa si distruggesse sotto i venti a 220 km/h nonostante la casa fosse di terra e paglia». In effetti, in tutto il villaggio distrutto, è rimasta in piedi solo la casa di fango della zia di Saintenes, accanto a una grande pianta di mango caduta a pochi metri. Con la forza data da questi esempi si ricomincia a seminare, a ricostruire, a vivere.
Ma se ci si rimbocca le maniche e si libera il cuore alla relazione allora davanti agli occhi si apre un nuovo sipario e questa terra appare dipinta da nuovi colori: condivisione, tenacia, semplicità e allegria, sono sfumature che si incrociano nelle conversazioni quotidiane e nei gesti tra le persone. Bisogna solo volerlo, lasciare a casa le paure e i pregiudizi nei confronti dell’altro e farsi abbracciare da questo popolo così diverso da noi. «Le contraddizioni e gli aspetti negativi di Haiti sono visibili a tutti – ci confida un uomo del nostro quartiere – quelli positivi invece sono più nascosti». Un “blan” (“bianco”, come veniamo chiamati noi ogni giorno) che vive in terra haitiana li può cogliere solo se decide di scendere dal suo piedistallo per conoscere la gente, condividendo la quotidianità. Che non è fatta solo di capannoni provvisori per distribuzione di farmaci o di bande armate. È varcando le porte delle case, sedendosi a bordo di una strada con un ragazzo, bevendo alle sei del mattino un “kafè ak pen” assieme a qualche lavoratore di passaggio che si scoprono i volti più interessanti di Haiti, i volti umani. È così che cerchiamo di vivere noi del Fwaye Papa Nou (che significa "Focolare Padre Nostro" ed è il nome della casa di accoglienza della Comunità Papa Giovanni XXIII).
Marta Bertolina e Valerio Torricelli, missionari ad Haiti da aprile 2016