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Casa famiglia ospite del convegno Oltre la Gabbia del disagio

La ricerca IUSVE: Oltre la gabbia del disagio

La ricerca universitaria che accredita il modello pedagogico delle case famiglia complementari multiutenza

Case famiglia complementari e multiutenza della Comunità Papa Giovanni XXIII: un luogo in cui un uomo e una donna, o uno dei due, scelgono di svolgere la funzione di papà e di mamma in modo stabile e continuativo. Dall’intuizione di don Benzi negli anni '70 si arriva allo studio scientifico di questa affascinante realtà che è stato presentato in questi giorni a Padova. Il coraggio di fronteggiare la fragilità, il lavoro di rete, e una forte spinta valoriale fanno miracoli.

 

Casa famiglia: «Pupilla dell'occhio della Comunità»

A quarant’anni una persona è sufficientemente matura per fare il punto sulla propria vita, per coglierne i punti di forza e di debolezza, e per tracciare le linee di una rinnovata progettualità nella continuità della propria identità.

Così in Veneto, ha raggiunto i quarant’anni la presenza di quella che don Oreste Benzi definiva «la pupilla dell’occhio della Comunità”: la casa famiglia. Se è vero infatti che il carisma del prete riminese si è manifestato in diversi campi, trasformandosi in azioni di condivisione e di rimozione delle cause, la casa-famiglia ha un quid particolare che la rende unica nel panorama sociale ma anche all’interno dell’Associazione stessa.

Oggi in Veneto le case famiglia – ha affermato il 9 novembre 2018 Ugo Ceron, psicologo, Responsabile veneto dell’Associazione, durante la presentazione della ricerca IUSVE – sono 29, affiancate da altre 16 strutture tra cooperative di lavoro e comunità terapeutiche. Nel 2017 sono state accolte 156 persone; 605 nel decennio tra il 2007 ed il 2017.

Per festeggiare degnamente questa importante scadenza è stato organizzato a Padova il convegno “Oltre la gabbia del disagio. Come la casa famiglia multiutenza è una risposta integrata al bisogno di cura e di relazione”.

«La casa famiglia è casa ed è famiglia – ha spiegato il filosofo e antropologo Lorenzo Biagi –. Il modello che la caratterizza è quello familiare. Le persone sono accolte da madri, padri, fratelli e attraverso questo legame sperimentano un contesto educativo capacitante, abilitante, che permette di tornare in società con una padronanza di sé, in maniera più autentica».


La ricerca IUSVE sulle Case famiglia

La Comunità Papa Giovanni XXIII ha approfittato di questa occasione per guardare in profondità commissionando allo IUSVE – l’Università Salesiana di Venezia – una indagine composta di due azioni contestuali e complementari. Una prima azione ha preso in esame i documenti istituzionali dell’Associazione dedicati al “modello di multiutenza complementare”, ricavandone informazioni non solo in merito alla struttura organizzativa delle case famiglia e della stessa Associazione, ma anche e soprattutto sugli impliciti di valore che ne orientano l’attività. Una seconda azione ha invece osservato la realizzazione di alcuni focus group utili ad approfondire con i rappresentanti delle differenti articolazioni interne interessate – referenti delle case famiglia operanti in Veneto e responsabili dei servizi generali a livello nazionale – le percezioni e le rappresentazioni delle prassi attivate, e in particolare il rapporto tra quelle esplicitate nei documenti (in termini formali) e quelle effettivamente agite (quelle di fatto).

È emersa una fotografia molto interessante di come la professionalità possa coniugarsi con l’umanità. «L’attività di formazione e di supervisione – ha spiegato il professor Daniele Callini dello Iusve – è molto intensa, capillare, diffusa, ma la vera forza di questa associazione è l’aiuto reciproco. Nessuna casa famiglia è mai da sola. C’è un aiuto solidale continuo, con una presenza discreta e non invasiva. C’è la condivisione su tanti tavoli e questo permette di far circolare».

 

 

 


Casa famiglia: un'esperienza umanizzante

«Uscendo dai focus group – ha confidato il Biagi – non eravamo più come siamo entrati. È un contesto umanizzante molto forte, e questo dà il senso del lavoro di rete che le case famiglie fanno sui territori. Danno una risposta al welfare, ma anche una risposta culturale, rispetto al tema della fragilità che non va esclusa, perché fa parte dell’umano».

«Tutti i protagonisti – continua Callini – dell’indagine raccontano il loro vissuto non in termini formalistici ma in termini autentici. Raccontano la loro storia, la loro vita, non processi e ruoli. C’è una grande consapevolezza nella dinamica vicinanza/lontananza che è una grande paura del lavoro sociale. Gli intervistati sanno gestire l’archetipo autoritario quando serve, ma al tempo stesso sono capaci di vicinanza calorosa quando è necessario. Questo presuppone la grande capacità di decodificare il bisogno specifico di ogni relazione. Sono davvero specialisti della famiglia!».

 

Competenza in un clima familiare

«Le case famiglia – ha spiegato il Responsabile Generale Giovanni Ramonda – evidenziano l’importanza insostituibile della figura paterna e materna, che è il fondamento di ogni famiglia e di ogni accoglienza».

La multiutenza che le caratterizza racconta «la complementarietà che diventa risorsa. C’è il neonato, il giovane, l’anziano, e così la casa famiglia diventa il luogo della responsabilità e dell’apertura. Ognuno quando è amato, quando è accolto, tira fuori il meglio di sé».

La consapevolezza della funzione insostituibile, conclude Ramonda, spinge a chiedere «al Veneto, come ad ogni Regione di riconoscere questa tipologia perché risponde con una competenza professionale ma in un clima familiare».



Marco Scarmagnani
13/11/2018

 

 

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