Fatima: sguardo spaesato, ossa spossate, una lacrima sospesa, tanta diffidenza. «Guarda, questa è la tua nuova stanza», le dicono, ma l’italiano non lo sa. 14 anni, somala, in bocca il gusto dell’acqua salata mista a benzina. Era stata picchiata più volte in Libia prima della tragica traversata. A Reggio Calabria, nella casa di prima accoglienza per minori stranieri non accompagnati della Papa Giovanni XXIII, Fatima arriva subito dopo lo sbarco. La prima notte non riesce a dormire: «teme di essere violentata». La sorella di Fatima, 17 anni, è rimasta intrappolata nella nave ed è morta.
Appena può Fatima chiama a casa; vuole annunciare alla mamma che lei è ancora viva, che è riuscita a sopravvivere, che la sorella no, di lei non si sa più nulla. Ma la mamma, ironia della sorte, le risponde: «C’è stato un incidente stradale, mia cara, anche tuo fratello qui ci ha lasciato».
Ironia della sorte numero due: a Fatima ora spetta il riconoscimento del corpo della sorella: appena si sarà ripresa dovrà prendere l’album con le foto dei 45 cadaveri arrivati il 29 maggio 2016 a Reggio Calabria, e cercare di riconoscerne il sorriso bluastro.
La nave Vega della Marina Militare italiana aveva raccolto in mare i corpi senza vita di 36 donne, 6 uomini e 3 bambini fra cui un neonato.
«Stiamo cercando di ricostruire per ognuna delle vittime un pezzo della loro storia, in modo da metterla sulla tomba: i cadaveri adesso sono contrassegnati con un numero, ma noi vogliamo scrivere chi sono e da dove vengono», continua a spiegare Giovanni Fortugno, responsabile della casa. «Aiutiamo i 629 sopravvissuti a riconoscere i corpi dei loro familiari».
La casa di prima accoglienza in questo momento ospita, oltre a Fatima, una mamma eritrea con la sua bimba, tre adolescenti nigeriane fra i 14 e i 17 anni, 2 bimbi egiziani di 10 e 12 anni, due ragazzini della Nuova Guinea e del Gambia rispettivamente di 12 e 13 anni. Non si sa più nulla di due ragazzini di 13 e 14 anni fuggiti dall’Eritrea e rimasti qui per oltre un anno, e di altre due ragazzine nigeriane: sono fuggiti sognando il Nord Europa come molti connazionali, negli ultimi mesi.
Intanto in città, nel quartiere Archi, il centro di prima accoglienza (nella foto) è al collasso: circa duecento ragazzi hanno protestato con forza per denunciare le condizioni di vita degradanti in cui, molti di loro anche da diversi mesi, vivono all'interno del centro.
Anche a loro si rivolge l'operato della
Diocesi di Reggio Calabria - Bova: con l'attività quotidiana del Comitato diocesano per l'emergenza sbarchi, e da oggi anche con
il progetto Filoxenia che darà una casa a 63 minori migranti per i prossimi 6 mesi.
Giovanni Fortugno è fra i coordinatori del progetto diocesano, e nel racconto entra nel personale: «Io ho avuto due momenti particolari che hanno cambiato la mia vita: il primo è stato nel 2010, quando sono uscito dal coma; per rielaborare chi ero e cosa volevo fare ho avuto bisogno di molto tempo. Il secondo è stato il 29 maggio 2016. I corpi deturpati spostati nei sacchi per fare loro il prelievo del dna, l’odore della morte, il frigorifero di 17 metri portato per raccogliere le salme: difficimente cancellerò tutto questo dalla mia vita».
Il 3 giugno di ogni anno, in ricordo del giorno della sepoltura dei corpi (nella foto), sarà per Reggio Calabria Giornata dell’Accoglienza: è stato dedicato alla memoria delle vittime del mare dalle istituzioni, dalle associazioni e dalla comunità cristiana locale.
«In città abbiamo costituito il Comitato diocesano per l’emergenza sbarchi: come Chiesa ci sentiamo protagonisti in tutti i sensi, guidati dal nostro Vescovo, Mons. Giuseppe Fiorini Morosini, che è in trincea insieme a noi. Siamo nel tendone sulla banchina del porto, e ci adoperiamo per l’accoglienza a livello nazionale. Alcune realtà ecclesiali sono fra le prime promotrici dei corridoi umanitari per i richiedenti asilo. Siamo operatori nell’accoglienza, siamo al fianco dei familiari delle vittime. C’è una Chiesa che sta rivivendo oggi la sua chiamata originale, che moltiplica i pani ed i pesci del miracolo della condivisione», continua Fortugno.
Il Coordinamento diocesano di Reggio Calabria, unica esperienza in Italia, fornisce durante gli sbarchi la prima assistenza ed il supporto umano, al fianco del personale medico e delle forze dell’ordine. I volontari condividono il dolore nei giorni immediatamente successivi con le comunità musulmane della città.
«Ho 52 anni - continua Fortugno - e ogni volta nella vita, quando mi è capitato di pensare di aver già visto tanto, il Signore mi ha portato ad affrontare situazioni sempre più grosse ed importanti. La prima domanda che mi è scattata dentro subito dopo l’ultima tragedia è stata: come Comunità Papa Giovanni XXIII, stiamo facendo abbastanza?»
E l’ultimo pensiero è per il mondo laico e la società civile: «Sono andato personalmente a ringraziare quei marinai che hanno rischiato la vita per caricare sulla nave Vega 600 persone. La Marina Militare sta salvando, nel silenzio, migliaia di vite umane; c’è un’Italia impegnata e silenziosa. Come Paese possiamo riconvertire le caserme, investire risorse umane e professionalità, proporre percorsi di inserimento lavorativo di almeno un anno che diano sbocchi in un contesto europeo. Con i 6 miliardi di euro che diamo alla Turchia per i respingimenti, potremmo attuare come Italia e come Europa un progetto di accoglienza serio e programmato»
Marco Tassinari
21/07/2016
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