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Luca Pieri. Con coraggio ha superato tante barriere

Il ricordo in una lettera pubblicata dal Resto del Carlino il 15/5/94. Oggi l'ultimo saluto.

Pubblichiamo una lettera scritta da Luca Pieri, gravemente disabile ma papà e impegnato fortemente nel sociale con la Comunità Papa Giovanni XXIII, che si è spento il 31 gennaio 2023. Oggi a Bologna il funerale.

 

Se handicap vuol dire forza

 

Carissimo don Oreste,
sono Luca Pieri, membro fin dagli anni '70 della Comunità Papa Giovanni XXIII della zona di Bologna.
Ora che sono diventato babbo della piccola Bianca, data alla luce un mese fa da mia moglie Carla, con questa lettera voglio ripercorrere assieme a te la mia esperienza di disabile nel cammino vocazionale della nostra Comunità. Mi sembra importante incominciare dalla mia infanzia e adolescenza, quando ho iniziato faticosamente a scoprire la mia diversità. Alla nascita sono stato colpito da una lesione cerebrale che mi ha provocato la cosiddetta «tetraparesi spastica». Di quel primo periodo della mia vita ricordo poche cose, fra le quali vorrei citare i giochi con i miei fratelli, che mi hanno permesso un poco alla volta di acquisire esperienze positive malgrado le mie rilevanti disabilità motorie. Grazie anche al coraggio dei miei genitori che, contro gli usi di allora, hanno preferito farmi crescere in famiglia piuttosto che affidarmi a istituzioni specializzate; di tutto ciò devo renderne grazie a mio padre e a mia madre, ma soprattutto mi devo ricordare di rendere grazie a Dio, che ne dici?

È evidente che fin da allora, però, i miei limiti hanno condizionato lo sviluppo della mia personalità, portandomi a essere molto introverso e riflessivo. Infatti mi colpivano molto le favole come «Il brutto anatroccolo» di Andersen, che chiaramente mi aiutavano a iniziare il faticoso e continuo lavoro di «assimilazione» delle mie facoltà, che andavo scoprendo nel corso dei trattamenti di fisiochinesiterapia. Questi ultimi li ho vissuti anche come un'esperienza di parziale abbandono della famiglia. Infatti ricordo ancora con una certa sofferenza quando andavo a Torre Pedrera all'ambulatorio del «Sol et Salus», mentre mio fratello maggiore andava a giocare sulla spiaggia. Pian piano ho iniziato a familiarizzare con la sofferenza, anche quella fisica derivante dai suddetti trattamenti riabilitativi. Ricordo ancora con un certo fastidio che allora tutti cercavano di propinarmi delle consolazioni religiose a buon mercato. Ma in quel periodo ho cominciato anche a scoprire il Vangelo. Ricordo in particolare la parabola dei talenti (Mt 25, 14-30): «Venuto infine colui che aveva ricevuto un solo talento... Per paura andai a nascondere il tuo talento sotterra... Avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri... E il servo fannullone gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti».

Che cosa può dire questo passo del Vangelo a un bambino disabile? Per me è stato un grosso stimolo a non accontentarmi delle facili risposte consolatorie sul piano della fede, che allora vivevo più per tradizione familiare che per esperienza personale, e a impegnarmi a fondo negli studi. Infatti a scuola avevo dei buoni risultati. Il fermento del post-Concilio e degli anni 70 coincise con la mia crisi adolescenziale, sfociata in un rifiuto aperto dei trattamenti di fisioterapia, ormai fini a se stessi, e delle già citate risposte consolatorie della fede tradizionale. Quegli anni sono stati cruciali perché il Signore iniziava a mostrarmi che anche «il brutto anatroccolo» può avere un suo ruolo.

In quegli anni mi sono avventurato alla ricerca dell'integrazione scolastica, prima al liceo e poi all'università, allo scopo di raggiungere una maggiore emancipazione sia dalla famiglia sia dagli ambienti sanitari «protetti». Fra le tante critiche ne ricordo una, di un ragazzo disabile, che mi diceva: «Cosa vai a cercare problemi? Sta' tranquillo, come me». Da un certo punto di vista, adesso come allora, non posso dargli torto; però che cos'è la crescita se non un cercare problemi? Poi stando vicino ai volontari del Centro di riabilitazione che frequentavo allora, mi sono gradualmente accostato alla nascente esperienza della Comunità Papa Giovanni XXIII. Ricordo di quegli anni il clima di sincera fraternità del primo «Campeggio spastici» a cui ho partecipato. Un altro momento per me fondamentale è stata la settimana di studi sull'handicap, svoltasi intorno al '75, se non ricordo male. Perché non farne altre, magari su temi più specifici? Ricordo poi i convegni organizzati dalla Comunità, in particolare quello internazionale sull'handicap, perché vi ho conosciuto Carla. Nacque subito una sincera amicizia durata più di un anno e sfociata nella scelta di iniziare il cammino insieme. Ricordo molto bene il primo colloquio che io e Carla abbiamo avuto con te e l'incoraggiamento inaspettato che abbiamo ricevuto. In quell'occasione ho colto meglio il significato di quella frase: «Non soffocate lo Spirito in voi»... Nel frattempo la Comunità ha maturato la propria vocazione, che ha preso corpo nello schema di vita. Vorrei farti alcune domande al riguardo della posizione di una persona disabile nei confronti della vocazione della nostra Comunità.

Credo che le stesse domande possano valere in qualche misura anche per i genitori o i familiari di persone disabili. Che cosa significa per una persona disabile e per un suo familiare il secondo dei Cinque Punti dello schema di vita: «scegliere liberamente ciò che gli ultimi sono costretti a vivere per forza»? Cioè, se non capisco male, la proposta è quella di scegliere liberamente la propria disabilità; mi sembra un po' paradossale... Collegate a questo paradosso sorge un'altra questione: chi porta direttamente le conseguenze del peccato, chi è prigioniero, come può essere soggetto di liberazione per sé e per gli altri? Nella mia esperienza dell'Operazione Colomba i miei limiti fisici contribuiscono non poco a rendere credibile la nostra proposta di condivisione. Può essere questa la risposta alle domande precedenti? Cambiando completamente discorso, ti pongo un'altra domanda: l'impetuoso sviluppo negli ultimi anni della Papa Giovanni XXIII non rischia di andare a scapito della qualità della nostra testimonianza? Non è che ci siamo lasciati andare? Non è che ci siamo lasciati prendere la mano dal «mal della pietra», ovvero dalla frenesia di moltiplicare le strutture materiali a scapito della qualità dei rapporti comunitari? Forse provo semplicemente un pizzico di nostalgia per la piccola «comunità degli inizi»... Un fraterno saluto da chi in fondo resta sempre un po’ un «brutto anatroccolo».
 

Luca Pieri

 

Risponde Don Oreste Benzi
 

Carissimo Luca,
se chi legge la tua lettera ti vedesse capirebbe come un «handicappato grave» è una persona con capacità specifiche, con un ruolo preciso, con una missione da compiere nell'umanità. La tua difficoltà dì parlare, l'impossibilità di camminare, di accudire da solo anche alle necessità più elementari mettono in risalto il tuo percorso scolastico dalla scuola elementare alle superiori, all'università alla laurea conquistata. Tu sei la dimostrazione vivente che si nasce con una difficoltà ma chi fa diventare handicappato è la società. Dalla tua vita risalta quanto è disumano collocare in istituto un handicappato con la giustificazione della gravità del suo limite. I tuoi genitori ti hanno accolto come dono e hanno dato tutta la loro vita perché fossi riconosciuto nella tua dignità di uomo e nelle tue capacità. Il loro impegno risalta in tutta la sua grandezza dal fatto che quando tu eri piccolo non c'erano le provvidenze dello Stato che ci sono oggi. Lo Stato invece di pagare strutture emarginate ed emarginanti per handicappati, costosissime, deve mettere in grado le famiglie o vere case famiglie per crescere i figli portatori di handicap. Collocare in istituto dei minori anziché dare loro un padre e una madre è un'ingiustizia, collocare in istituto gli handicappati è una crudeltà.

Collocare in istituto dei bambini con l'Aids è un atto criminale. Bisogna insorgere contro queste oppressioni di innocenti: l'atto contro di loro è tanto più grave perché essi non possono difendersi. I tuoi genitori non solo ti hanno tenuto con loro, ma soprattutto nel loro amore, nel loro coraggio tu hai capito l'importanza della tua vita. Quanti ragazzi oggi, adolescenti, giovani con limitazioni come le tue, ma anche senza alcun impedimento si sentono il «brutto anatroccolo» per il solo fatto di essere in istituto, perché per loro non c'è posto nel cuore di nessuno. In molti di essi si scatena la ribellione e anche la perdita della fede molte volte, è causata dalla loro reclusione. Altri si rinchiudono in se stessi separandosi dagli altri con la disperazione nel cuore. Invece, come tu hai potuto constatare e constati, i nostri ragazzi handicappati gravissimi si trasformano e crescono nell'amore di chi li sceglie liberamente come veri figli. GII handicappati hanno una funzione stupenda che è quella di umanizzare l'uomo e di costringere la società a svilupparsi a misura d'uomo. Ogni passo in avanti fatto per i disabili è un passo avanti fatto per tutta l'umanità. «Là dove siamo noi lì anche loro»: nel lavoro, nella scuola, nella società.

Ora la risposta alle tue domande: uno che nasce come disabile può ancor più di chi nasce senza limitazioni scegliere liberamente ciò che gli ultimi sono costretti a vivere per forza, perché conosce direttamente tutte le sofferenze ed umiliazioni connesse alla condizione di handicappato. Egli «sceglie» la propria condizione e dal di dentro lotta per al liberazione di tutti coloro che sono oppressi a causa della loro disabilità. Per questo motivo può mettere la propria spalla sotto la croce di chi porta le conseguenze di un peccato che non ha commesso lui, ma tutta l'umanità. Se la gente avesse visto come tu sei soggetto attivo di una nuova umanità nei campi di condivisione fra i profughi della Croazia, tutti capirebbero che gli handicappati sono i primi nella nuova rivoluzione della società della gratitudine, nella civiltà dell'amore.

Don Oreste Benzi

 

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