È il 1978. Siamo agli anni di piombo, gli “anni bui” della nostra Repubblica. Terrorismo, attentati, sequestri. Franco Bonisoli fa parte del comitato esecutivo delle Br. A 19 anni una scelta totalizzante, la lotta armata. (così totalizzante che qualche anno dopo, in carcere, conclusa questa fase storica e sua personale, arriva a pensare che la sua vita sia finita, non abbia più nessun senso). Franco partecipa alla strage di via Fani, dove viene sequestrato Aldo Moro. Cinque mesi dopo l’uccisione del presidente della Dc, viene arrestato nel covo milanese di via Monte Nevoso. Condannato a 4 ergastoli, a metà anni Ottanta si dissocia dalla lotta armata e la carcerazione viene commutata in una pena a termine.
Durante la detenzione nelle carceri speciali, alcuni incontri imprevisti lo mandano in crisi, rivede tutta la sua storia e – soprattutto – la scelta della lotta armata. È qui che pensa che la sua vita sia finita. «Invece – racconta – è stato l’inizio di una seconda vita».
Una seconda vita, in cui – passo dopo passo – diventa fondamentale il legame di amicizia con Agnese Moro, figlia dell’uomo che anche lui ha condannato a morte.
«Avevo rovinato la mia vita, e quella della mia famiglia, era una vita persa. Vivevo nella morte e non vedevo soluzioni: tutto era finito con il fallimento di quell’ideale di rivoluzione a cui avevo dato tutto. Un giorno in carcere, in cortile, incontrai Franceschini (il fondatore, insieme a Curcio, delle BR, ndr). Anche lui si sentiva come me. Così è nata la chiamata a don Salvatore Bussu, cappellano del carcere, un uomo semplice che per anni pazientemente aveva inserito dentro lo spioncino delle nostre celle dei biglietti per cercare un dialogo. Ci trattava come persone, che avevano sbagliato, ma uomini. Don Salvatore preoccupato per dei terroristi. Questa cosa era spiazzante. Se non sono morto, è per quell’umile prete. Da qui ho preso le mosse, per incontrare delle persone. Non come un collaboratore di giustizia, non volevo fare qualcosa per avere dei vantaggi, ma una scelta di cammino. Ho incontrato Giovanni Bachelet per esempio (figlio di Vittorio, ucciso dalle Br nel 1980, ndr.). E ho iniziato a rivedere il mio passato, fino ad affermare, fino in fondo, la sconfitta: la scelta della violenza, l’errore più grande. È stata una grande assunzione di responsabilità personale. Adesso potevo dialogare».
«Iniziai a partecipare agli incontri tra vittime e responsabili della lotta armata. Padre Guido Bertagna, gesuita, uno dei fautori di questo cammino durato 8 anni, insisteva perché io e Agnese ci vedessimo. Ricordo benissimo la prima volta. Mi invitò a casa sua e io le portai una piantina. Parlammo e parlammo. Poi le chiesi se aveva richieste particolari. Rispose di no, voleva che le parlassi della mia famiglia, del mio impegno sociale, dell’oggi. Rimase colpita quando le raccontai che, ancora in carcere, utilizzavo i permessi per andare a parlare con i professori di mio figlio. Le interessavo io, la mia vita oggi. Agnese ama ripetere che per avviare un dialogo bisogna essere disarmati. Così è stato».
Franco Bonisoli e Agnese Moro sono stati i principali protagonisti a Rimini de “L’incontro che genera vita”, organizzato dall’Università del Perdono fondata dalla Comunità Papa Giovanni XXIII.
Foto di Riccardo Ghinelli